Attualità e Testimonianza con d.Giampietro 12/07/21
Dal Corriere della Sera del 12 luglio 2021
Un Paese, una vittoria, una prova d'orgoglio
di Aldo Cazzullo
È la vittoria che mancava a una generazione di calciatori, quelli in campo e quelli in panchina, suggellata dall’abbraccio tra Mancini e Vialli in lacrime. Ed è il segno di rinascita che aspettavamo dopo il periodo peggiore delle nostre vite, come fu il Mondiale 1982 dopo gli anni di piombo. Difficile dire chi ne avesse più bisogno, se gli azzurri o noi.
Chi tra gli azzurri non gioca nella Juventus non aveva vinto praticamente nulla negli ultimi dieci anni (a parte lo scudetto dell’Inter di Barella). Ma anche agli juventini — in particolare al duo Chiellini-Bonucci, autori di una partita strepitosa, quasi come quella di Donnarumma — era sfuggita finora la consacrazione, che non era giunta con le due finali di Champions perdute ed è finalmente arrivata a Wembley.
Ma tutti quanti noi sentivamo la nostalgia e la necessità di una festa non meno di loro. Molti italiani sono usciti di casa per la prima volta stanotte dopo mesi; e l’hanno fatto per celebrare una vittoria collettiva. Appena un mese fa non se l’aspettava nessuno.
Non è forse una grandissima squadra, quella che ha conquistato il secondo campionato europeo della nostra storia e ha fatto suonare «Notti magiche» nel tempio del calcio inglese. Nulla a che vedere con la Nazionale che vinse nel 1968: Zoff, Facchetti, Mazzola, Anastasi, Rivera, Riva… Ma è senz’altro un grandissimo gruppo; che manda per primo a ricevere la medaglia Spinazzola con le stampelle. Professionisti, amici, compatrioti (bello vedere Matteo Berrettini andare a salutare in tribuna il presidente Sergio Mattarella; e sarebbe bellissimo se il primo italiano finalista a Wimbledon riportasse la residenza fiscale da Montecarlo in patria).
Non si diventa mai campioni per caso. Non senza una base tecnica e una forza morale. Il calcio non è metafora della vita e della politica; ma la Nazionale finisce sempre per assomigliare alla nazione che rappresenta. In questo mese, la Nazionale di Mancini ci ha ricordato che essere italiani non è poi così male. Anzi, qualche volta possiamo pure sentirci orgogliosi di esserlo.
Per un popolo che non ha avuto un Balzac e un Flaubert, un Tolstoj e un Dostoevskij, un Dickens e un Tolkien, il calcio è il vero romanzo popolare. E come ogni romanzo individua, racconta, segna un momento storico.
L’Europeo 1968 incrociò un’Italia uscita da una secolare povertà, alla vigilia di una stagione inquieta e violenta, che però almeno per una notte riscoprì il tricolore. Era un tempo in cui i calciatori non cantavano l’inno, che non veniva considerato una cosa importante; adesso lo è.
Con il Mondiale 1982 l’Italia cambiò umore. Finivano gli anni della politica di strada e di piazza, cominciava l’epoca del riflusso, del campionato di calcio più bello del mondo e della febbre del sabato sera, quando persino ballare era una cosa che si faceva da soli. Fu un’epoca fatua, che alla lunga avremmo pagato cara; ma fu anche l’ultima volta in cui siamo stati felici, almeno tutti insieme.
Il Mondiale 2006 fu un lampo nel buio di un Paese che già non credeva più in se stesso, ed era atteso da prove terribili: la grande crisi prima finanziaria poi economica, e ora la pandemia con il suo carico di dolore. Se anche questo Europeo resterà un bellissimo ricordo in un momento oscuro, o se invece diventerà davvero il simbolo di una rinascita, questo dipende soltanto da noi.
Chi tra gli azzurri non gioca nella Juventus non aveva vinto praticamente nulla negli ultimi dieci anni (a parte lo scudetto dell’Inter di Barella). Ma anche agli juventini — in particolare al duo Chiellini-Bonucci, autori di una partita strepitosa, quasi come quella di Donnarumma — era sfuggita finora la consacrazione, che non era giunta con le due finali di Champions perdute ed è finalmente arrivata a Wembley.
Ma tutti quanti noi sentivamo la nostalgia e la necessità di una festa non meno di loro. Molti italiani sono usciti di casa per la prima volta stanotte dopo mesi; e l’hanno fatto per celebrare una vittoria collettiva. Appena un mese fa non se l’aspettava nessuno.
Non è forse una grandissima squadra, quella che ha conquistato il secondo campionato europeo della nostra storia e ha fatto suonare «Notti magiche» nel tempio del calcio inglese. Nulla a che vedere con la Nazionale che vinse nel 1968: Zoff, Facchetti, Mazzola, Anastasi, Rivera, Riva… Ma è senz’altro un grandissimo gruppo; che manda per primo a ricevere la medaglia Spinazzola con le stampelle. Professionisti, amici, compatrioti (bello vedere Matteo Berrettini andare a salutare in tribuna il presidente Sergio Mattarella; e sarebbe bellissimo se il primo italiano finalista a Wimbledon riportasse la residenza fiscale da Montecarlo in patria).
Non si diventa mai campioni per caso. Non senza una base tecnica e una forza morale. Il calcio non è metafora della vita e della politica; ma la Nazionale finisce sempre per assomigliare alla nazione che rappresenta. In questo mese, la Nazionale di Mancini ci ha ricordato che essere italiani non è poi così male. Anzi, qualche volta possiamo pure sentirci orgogliosi di esserlo.
Per un popolo che non ha avuto un Balzac e un Flaubert, un Tolstoj e un Dostoevskij, un Dickens e un Tolkien, il calcio è il vero romanzo popolare. E come ogni romanzo individua, racconta, segna un momento storico.
L’Europeo 1968 incrociò un’Italia uscita da una secolare povertà, alla vigilia di una stagione inquieta e violenta, che però almeno per una notte riscoprì il tricolore. Era un tempo in cui i calciatori non cantavano l’inno, che non veniva considerato una cosa importante; adesso lo è.
Con il Mondiale 1982 l’Italia cambiò umore. Finivano gli anni della politica di strada e di piazza, cominciava l’epoca del riflusso, del campionato di calcio più bello del mondo e della febbre del sabato sera, quando persino ballare era una cosa che si faceva da soli. Fu un’epoca fatua, che alla lunga avremmo pagato cara; ma fu anche l’ultima volta in cui siamo stati felici, almeno tutti insieme.
Il Mondiale 2006 fu un lampo nel buio di un Paese che già non credeva più in se stesso, ed era atteso da prove terribili: la grande crisi prima finanziaria poi economica, e ora la pandemia con il suo carico di dolore. Se anche questo Europeo resterà un bellissimo ricordo in un momento oscuro, o se invece diventerà davvero il simbolo di una rinascita, questo dipende soltanto da noi.
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